Non ci sono più le mezze stagioni: Frühjahr

Oggi è l’11 aprile. E ci sono 9 gradi.
E vabbè, direte, di che cosa ti lamenti? Sei in Germania, fa freddo. Sei il solito stereotipo dell’italiano al Nord Europa che si lamenta del clima. Goditi le cose belle, tipo…tipo…tipo. Vabbè, mi verrà in mente.
Comunque sono in casa col golf e adesso vado ad accendere il riscaldamento. Vi pare normale? Ora, passi per marzo pazzerello, che vedi il sole e apri l’ombrello ma aprile dice solo dolce dormire, non dolce dormire sotto il piumone ikea livello 6 e coi termo accesi.
Per restare nei proverbi, potresti obbiettare che si sa, non ci sono più le mezze stagioni, un giorno hai su il paltò e quello dopo la canottiera.
La verità è che qui il problema non sono le mezze stagioni, sono quelle intere. Una, nello specifico. La primavera. Che si dice Frühjahr, parola composta da früh che vuol dire presto e Jahr che vuol dire anno. La primavera cioè è quella cosa che arriva presto nell’anno. Ah sì? Mi prendi forse per i fondelli, cara deutsche Sprache? Oppure hai un calendario tutto tuo dove l’anno comincia a luglio per farti beffe di Giulio Cesare? No perché siamo ad aprile e qui il Frühjahr è passato da un tot e di primavera neanche l’ombra. Se non fosse per i germogli, che impavidi e anche un po’ tonti si vedono sugli alberi, potrebbe anche essere dicembre.
La primavera scoccia in tante cose, non lo metto in dubbio, tipo che al mattino esci vestito come per una spedizione al Polo e a mezzogiorno vorresti essere in bermuda e invece di puzza l’ascella sotto al maglione di lana; che a colazione vuoi il tè bollente e a pranzo la birra fresca. Però c’è, arriva un momento, di solito tra marzo e aprile in cui tutto questo accade e le giornate di sole sono sempre di più.
Qui no. E bon. Si va col maglione fino a giugno inoltrato e poi un giorno ti svegli e ci sono 30 gradi. Per due settimane. Poi viene l’autunno.
E la cosa che più mi dà fastidio non sono i 9 gradi e il grigio piombo di cielo e terra (che già comunque le balle me le fanno girare parecchio). No, sono quelli che ti guardano e ti dicono “eh, certo che l’inverno qui in Germania dev’essere duro per te, abituato al sole dell’Italia”. Di nuovo. Di quale Italia? Di quella che è nei vostri cervellini, quella acefala, quella che sulle mappe non è segnata. Perché io a Natale non vado in giro con lo spolverino a riva di mare, a Natale sono intabarrata nel piumino e cerco di rendere qualunque percorso fuori il più breve possibile. Da me in inverno nevica. Anche di brutto a volte. Però il disgelo arriva. E allora sì che quel sole ve lo sognate!

Alla prossima,
M

Doktortitel

Questo post è forse il più personale di questo blog e arriva dopo un lungo silenzio, dovuto a tanti impegni e al tempo dell’attesa che è sempre sospeso.
L’attesa che finalmente la mia tesi di dottorato fosse pubblicata e che mi arrivassero le copie che mi spettano. E finalmente, il 17 marzo, sono arrivate!
Finora sono stata dottoressa, e dottore di ricerca, solo in Italia. Oggi lo sono anche in Germania, dove per avere il Doktortitel bisogna pubblicare la propria tesi di dottorato. E poi Dr. diventa più di un titolo, diventa parte del nome: sono Frau Doktor Marta P.
Ora, scrivere una tesi di dottorato, e poi pubblicarla è un’esperienza che può capire solo chi l’ha vissuta o la sta vivendo.
Per arrivare al 17 marzo 2016, ho iniziato il primo ottobre 2000, il primo giorno di università: venivo dallo scientifico e mi ero iscritta a lettere classiche, pur avendo passato terza la selezione a psicologia. Francamente, pensavo che non avrei passato il primo esame e che avrei scongiurato quelli di psicologia di riprendermi l’anno dopo.
Invece l’ho passato e anche tutti gli altri, compreso quello più importante, cioè decidere se insistere o mollare. Ho insistito e il 17 marzo è arrivato. E non ho finito di insistere, ho appena cominciato.
Quando sono arrivati i libri sono stata molto diplomatica, distante quasi perché avevo la festa da organizzare e amici da far ubriacare (obbiettivo centrato!). Poi, passata la sbronza, partiti gli ospiti, ho preso in mano la copia che terrò per me, finalmente spacchettata, l’ho guardata e ho pianto, ma proprio a singhiozzi. Ho pianto la gioia, la fatica, la frustrazione, la meraviglia e i ricordi. Ho pianto come Baldini sul podio di Atene, perché la sensazione è un po’ quella di aver corso una maratona fondamentale e di averla vinta e di essere lì, a sentire il tuo inno, con una corona d’ulivo in testa, come i vincitori di Olimpia. E non ci sono secondi o terzi o piazzati, o vinci o niente. E sei solo in pista, spesso anche contro te stesso. Per fortuna ogni tanto qualcuno ti allunga un bicchiere d’acqua e fa qualche metro con te.
Grazie a tutti quelli che hanno fatto con me qualche metro o che mi hanno dato da bere, è stato un viaggio lunghissimo e meraviglioso.
Che rifarei da capo, perché l’idea di perdermi questa sensazione sarebbe insopportabile.
E ancora una volta, let’s dance it out!

La panacea contro tutti ma proprio tutti i mali: Viel trinken

Era un po’ di tempo che avevo in mente di scrivere un post sulle stranezze della sanità tedesca. Partiamo dal presupposto che tante cose funzionano bene e che sicuramente anche l’Italia ha un sacco di cose che andrebbero modificate.

Ma sono reduce dall’ultima esperienza allucinante e quindi ora vi voglio raccontare le più assurde, che col senno di poi fanno anche ridere ma che sul momento provocano non poco giramento di scatole.

Partiamo da oggi: mio marito è malato, si è beccato un bel virus e gli è venuta la febbre. ieri sera ci accorgiamo che l’aspirina è scaduta, così stamattina di buona lena controllo su internet la farmacia aperta di turno (che qui non si chiama di turno, non sia mai, la domenica, nella città meno religiosa del pianeta, è sacra e guai a toccargli il loro brunch. Si chiama servizio di emergenza – Notdienst) e mi avvio, tanto sono circa 300 metri da casa. Indovinate un po’? Chiusa. Ovvio. Però mi indica quella aperta più vicina: A UNDICI FERMATE DI AUTOBUS. UNDICI. Per un’aspirina mi sono fatta una gita in un altro quartiere. Però non è che si può morire di febbre nel 2016 (anche se evidentemente in Germania si può vivere questa incredibile esperienza – se sei anziano, poco ambulante e solo possono trovarti dopo giorni e giorni) e allora vado. Prendo il bus e finalmente arrivo. Ma la vera avventura deve ancora cominciare. La farmacia non è aperta, nel senso che per entrare – che sciocca che sono, pensavo di poter entrare – bisogna suonare un campanello. Ok, è domenica, magari non c’è grande afflusso, ci sta. Suono e arriva una tipa – senza camice tra l’altro – che apre uno spioncino. E bon. Non si entra. Ovviamente non si può neanche pagare col bancomat perché questo vorrebbe dire farti entrare e quindi, se tuo nonno sta morendo e tu sei uscito con cinque euro, fottiti. Anche se in banca hai un milione di euro. Quando commento che è assurdo la tipa mi dice che è per la sua sicurezza. Perché? Nei giorni feriali non possono entrare malintenzionati armati? Ti sembro una tossica in cerca di droghe facili? Oppure hai paura che ti attacco l’influenza e di morire di febbre? Comunque, l’aspirina l’ho comprata e sembra che mio marito sopravviverà all’influenza.

Ma veniamo alle altre “stranezze”, ve ne racconto due che non potrò mai dimenticare:

  1. il malcapitato è sempre mio marito. Che fa judo ed è cintura nera. All’epoca la cintura nera non ce l’aveva e dopo un allenamento è tornato a casa senza più riuscire a muovere un braccio. Si muoveva solo, avanti e indietro, di circa 30 gradi. Il medico, solo guardandolo in faccia, gli diagnostica una “botta forte” (che non credo sia un termine tecnico tra l’altro) e gli dà delle pastiglie omeopatiche. Tipo 50 al giorno. Già a me la parola omeopatia fa venire l’orticaria, sono insomma omeofobica, ma per curare un braccio che non si muove mi pare quantomeno un azzardo. Mio marito non è convinto e dopo qualche giorno va a farsi fare una risonanza. Risultato: clavicola fratturata. Curata in pratica con acqua fresca.
  2. Mentre stavo finendo di scrivere il libro della mia tesi di dottorato per darlo all’editore ad un certo punto tutta la parte destra del mio corpo ha iniziato a fare per alcuni secondi quello che le pareva e cioè fare finta di non esistere. Uno sciopero insomma, per dirmi di smetterla di stare al computer, soprattutto di smetterla di starci con la peggiore postura possibile. Vado dal medico, ipotizzando già le peggio malattie neurodegenerative (e sapendo benissimo che si trattava di un problema muscolare che partiva dalla schiena e dalla spalla) e la simpatica dottoressa cosa mi consiglia come rimedio? La boule dell’acqua calda. Letterale. Io devo averla guardata come se avessi una paresi totale e a quel punto lei mi ha chiesto: “perché, cosa pensi di avere?”. Non lo so, se lo sapessi ci sarei io sulla tua sedia, ma se proprio non vogliamo chiamare il neurologo, voliamo pure basso ma almeno un giro dal fisioterapista io me lo farei. L’ho fatto da sola il giro dal fisio. Mai più successo (e speriamo non succeda più, è una sensazione orrenda).

Ora, io non sono una grande fan della chimica, né degli esami inutili: se ho il mal di testa me lo faccio passare, se ho il naso chiuso mi faccio un tè all’eucalipto e via dicendo. Ma se ho placche in gola grandi come il Brasile, forse l’antibiotico serve. Se non riesco più a muovere il braccio magari una radiografia può essere d’aiuto per la diagnosi, se mi si attorcigliano i nervi della schiena, magari un massaggio dal fisioterapista risolve il problema prima di andare dall’ortopedico.

E invece no, per i tedeschi (medici) la soluzione è una: viel trinken, cioè “bere molto”. Cosa, non è dato sapere, ma ad occhio e croce io un paio di ipotesi su quello che bevono loro le avrei.

Rechte = Diritti

Volevo tacere, volevo aspettare perché ero convinta che gli Italiani fossero finalmente diventati un popolo civile. Volevo poter scrivere questo post diversamente.

E invece no. Possiamo parlare della scarsa civilizzazione dei tedeschi sul cibo, sull’abbigliamento e in generale sulla socialità ma noi non vediamo la trave nel nostro occhio.

Ovviamente sto parlando del circo (è davvero la parola adeguata) intorno alla votazione del ddl Cirinnà. Ero davvero convinta, ma davvero davvero, che la legge sarebbe stata approvata, senza se e senza ma. E invece? Invece no, ovvio. Perché siamo in Italia, dove fa più scandalo una famiglia (sì, FAMIGLIA) formata da due persone dello stesso sesso di un presidente del consiglio accusato di prostituzione minorile (tra le altre cose), della corruzione e del nepotismo dilaganti, delle persone che vivono secondo il motto mors tua vita mea, delle tante, troppe, donne vittime dei loro compagni, ai quali evidentemente è stato insegnato che due uomini che si baciano fanno schifo ma anche alla propria compagna meglio dare legnate che baci.

Se volete vivere in questa società, allora sono contenta di essermene andata, preferisco rinunciare alla piadina ma vivere senza la paura di dover essere sempre giudicata per quello che faccio (perché, si sa, le donne istruite per gli uomini di cui sopra sono una minaccia quasi pari ai due uomini che si baciano), per come mi vesto, per quello che penso e per chi frequento (che si sa, in Italia i tolleranti si vantano di avere “addirittura” amici omosessuali).

Meno ancora voglio essere giudicata per quello che sono. E voi? A voi farebbe piacere essere giudicati per quello che siete? Non per quello che siete diventati, ma per quello che siete e che siete sempre stati: alti, magri, grassi, bassi, bianchi, neri, con gli occhi verdi o con gli occhi marroni, con i capelli biondi o castani. Soprattutto, vi piacerebbe se qualcuno vi dicesse “Lei non può sposarsi, è biondo. Solo i castani si possono sposare. Ma non con altri castani, solo coi mori”. Fa ridere? Vi fanno ridere anche l’apartheid e le stelle gialle di settant’anni fa? No, vero. Neanche a me. Eppure di questo stiamo parlando: di discriminare delle persone sulla base di una caratteristica non modificabile, come Martin Luther King non poteva cambiare il suo colore della pelle e Anna Frank non poteva cambiare il suo nome o la sua fede.

Naturalmente, è bellissimo vedere i tantissimi italiani impegnati nelle campagne pro ddl Cirinnà, gli italiani che si ricordano che, se siamo tutti essere umani, abbiamo anche tutti gli stessi diritti, o anche solo quelli che pensano che i veri problemi del Paese siano altri.

Sapete invece chi mi fa più ribrezzo?

  • i cattolici che nascondono il loro essere intolleranti, stupidi e bigotti dietro la religione. Io credo, ma è solo un’opinione personale, che #amatevigliuiniglialtricomeiohoamatovoi dovrebbe vincere su tutto, ma proprio tutto.
  • quelli che si appellano alla biologia. Abbiamo capito che nasciamo maschi e femmine, voi però dovete mettervi in testa, malati di gender, che maschio e femmina non è uguale a uomo e donna (perché, nel caso, ve lo spiego la prossima volta). E che quando si tratta di tante altre cose della biologia ve ne fregate altamente. Coerenza, please.
  • quelli che mettono in mezzo il bene dei bambini. Ah sì? Ma davvero? Dov’è il bene dei bambini quando sacerdoti pedofili non vengono deferiti alle autorità competenti? Dov’è il bene dei bambini quando ci si sposa e si divorzia venti volte? Dov’è il bene dei bambini quando non gli insegniamo la tolleranza? Dov’è il bene dei bambini quando il genitore biologico viene a mancare e il bimbo è affidato ad un istituto e dichiarato adottabile?
  • quelli che temono che così si sfaldi la famiglia tradizionale. Come se non ci pensassero già le reciproche corna, le violenze fisiche e psicologiche, l’ignoranza dilagante.

Vi garantisco che per decidere di guardare in faccia una persona e prometterle davanti a un folto numero di persone a cui volete bene di amarla per tutta la vita, ed essere pronti a mantenere davvero questa promessa, ci vuole un coraggio da leoni. Se la persona che guardiamo negli occhi e a cui facciamo questa promessa è del nostro stesso sesso o no, che differenza fa? E’ comunque la promessa più grande e solenne che possiamo fare ad un altro essere umano.

Alla prossima,

M

Di brodaglie e di costumi: Kaffee

Dopo Abendbrot torniamo a parlare delle abitudini mangerecce o, in questo caso, beverecce, dei tedeschi.

Cosa significhi la parola, o meglio, quale sia la sua traduzione, è evidente: vuol dire caffè.

Eh, già, hai detto niente. Io non sono una purista del caffè, non mi piace neanche tanto, bevo solo decaffeinato altrimenti mi vengono la tachicardia e il bruciore di stomaco e a colazione bevo il tè. Da sempre. Una tazzina di caffè a stomaco vuoto, soprattutto se fatto con la moca, a me fa ribaltare le budella. Sembro Bisio in Benvenuti al Sud: un tè, fette biscottate con un velo di marmellata e yogurt. O muffin, o cheesecake, ma comunque tè.

L’ultima volta che ho bevuto caffè (dec, ovviamente) più di una volta al giorno per una settimana intera è stato lo scorso anno a febbraio e alla fine della settimana il mio stomaco si è ribellato comunque (ammetto che non si sa ancora se sia stato il caffè o la Winter School a cui ho partecipato ma insomma, potrebbe essere stato il caffè).

Aggiungo anche che io non ho nulla di nulla contro i diversi tipi di caffè: espresso, ristretto, doppio, lungo, americano, il frappuccino, il caramel latte macchiato (e tutte le altre golosità di Starbucks), quindi se i tedeschi si bevono il caffè in quella che per me è una tazza da caffellatte buon per loro, non sono qui per disquisire di consistenza e lunghezza del caffè.

Però c’è un però. Lo bevono nel bicchiere di carta, in piedi o per strada, ovviamente da soli. Al lavoro se lo fanno con la macchinetta dell’ufficio e se lo portano in ufficio, fuggendo il più velocemente possibile per poi berselo alla scrivania.

C’era una famosa pubblicità italiana che recitava “il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è”. Lasciamo stare la seconda parte, buono o non buono questo è uno step troppo in avanti e comunque una scelta personale, son gusti insomma.

Soffermiamoci sulla prima parte: il caffè è un piacere. E allora spiegatemi, che piacere c’è a bere il caffè nel bicchiere di carta, da soli, di fretta, per strada al freddo o con 40 gradi?

Forse a loro piace scottarsi le mani, perché diciamocelo, il caffè preso al chiosco dei panini (parleremo anche di questo) in un sottile bicchiere di carta ti ustiona le mani anche se hai i guanti. O forse vogliono ustionarsi la lingua, perché al primo sorso del suddetto caffè, coperto da apposito coperchio di plastica con fessura che filtra la temperatura del sole, le papille gustative vanno a farsi fottere (ah, ecco…forse mi spiego tante cose). O forse il piacere è nel macchiarsi i vestiti (i loro o quelli dei vicini) ché a bersi il caffè nella metropolitana in bilico ad ogni fermata il cappotto di Jack Wolfskin (la moda è un tema che dobbiamo affrontare ma ancora non ho avuto il coraggio). rischia la patacca.

Oh, ognuno ha i suoi piaceri. Il piacere è berlo al bar, per scambiare due chiacchiere con un amico, per dare uno sguardo ai titoli dei quotidiani, per decidere che è un peccato non prendere anche una brioche (per me è brioche, non cornetto, se non siete d’accordo amen), per scambiarsi informazioni utili con un collega, per sedersi o solo fermarsi un momento.

Un caffè può essere cinque minuti o diventare un pomeriggio ma è sempre spontaneità, espressa bene dalla frase “vieni, ti offro un caffè”, che te lo posso offrire a casa o al bar ma non ti devo invitare con due settimane di anticipo e farti trovare anche 10 torte diverse. Altrimenti che spontaneità è?

 

Alla prossima,

M

Una sigla che tutti gli italiani in Germania per l’università conoscono (e odiano-amano): DAAD

Il silenzio del blog nelle ultime settimane è dovuto a lui, il mitico DAAD, acronimo di Deutscher Akademischer Austauschdienst, ovvero servizio (Dienst) tedesco (deutscher) di scambio (Austausch) accademico (vabbè, andate per esclusione!).

Tutti gli italiani che hanno chiesto borse di studio per la Germania lo conoscono, ci hanno avuto a che fare e per questo lo amano (perché dà le borse di studio) e lo odiano.

Vi chiederete perché odiato se il gentile ente sparge borse di studio a destra e manca per studenti e post-studenti che vogliono venire a studiare in Germania (e anche per i tedeschi che vogliono andare all’estero). Odiamo la generosità? Ci dà fastidio avere uno stipendio. No, odiamo come si arriva ad averlo. Inoltrare una domanda per una borsa di studio può essere più o meno complicato ma generalmente serve una lettera in cui si spiega perché si vorrebbe proprio quella borsa, un curriculum vitae, un progetto di ricerca (più o meno lungo) e una o due lettere di raccomandazione da due professori che sostengono la tua candidatura. Ah, e i certificati che la laurea (o il dottorato) l’hai presa davvero.

Per il DAAD no. Ecco qui l’elenchino dei documenti richiesti per la borsa che vorrei:

  • formulario (10 pagine!) compilato in ogni sua parte
  • riassunto del progetto di ricerca, al massimo 2000 caratteri (spazi inclusi, se vi interessasse saperlo)
  • progetto di ricerca (il riassunto non basta, ci vuole anche il progetto lungo, ma non lungo quanto vuoi, fino a 20000 caratteri – sempre spazi inclusi – e, se ve lo state chiedendo, la bibliografia può essere extra, come allegato)
  • piano di lavoro. Non c’è un limite di caratteri – secondo me se ne sono dimenticati – ma ovviamente devi precisare cosa farei ogni mese, mese per mese, per 18 mesi.
  • lettera di invito dell’università tedesca, che dice che il vostro progetto è stupendo e che ci sarà per te una scrivania dove lavorare – che poi sia in uno sgabuzzino delle scope poco importa, non va specificato (ma vedremo nei bandi dei prossimi anni se vogliono la pianta catastale dell’ufficio)
  • dichiarazione dell’ospite tedesco che, finita la borsa, si farà di tutto per assumerti (sorvoliamo sull’ingenuità del DAAD, lasciamoli vivere nel loro mondo dove le nuvole sono di panna e gli unicorni parlano)
  • lettera di invito dell’università straniera. Oggi con tutte le nuove leggi sui confini non sia mai che senza non ti facciano passare la frontiera.
  • Lista delle pubblicazioni, divise in: monografie, articoli in riviste, articoli in volumi miscellanei. Se ne hai altre che non rientrano in questa categorie, non chiamare il DAAD, potrebbero avere una crisi di nervi e morire perché loro devono poter incasellare tutto, anche le caselle.
  • 3 pubblicazioni. E fin qui…
  • motivazione della scelta delle 3 pubblicazioni. In 3000 caratteri devi spiegare perché quelle lì sono fondamentali per te, per il progetto, per la scienza e anche per l’ecosistema.
  • riassunto della tesi di dottorato, in soli 7000 caratteri (gli spazi sono sempre inclusi, mi sembra inutile ribadirlo). Considerato che la mia tesi ha 913.668 caratteri, direi che ridurla a 7000 è un gioco da ragazzi, come Shining con l’accetta.
  • certificato di dottorato. E bon, strana concisione, non vogliono anche quello di laurea triennale e specialistica, il diploma, il certificato della terza media e della quinta elementare e anche quello dell’asilo, oltre al certificato di nascita, che non si sa mai.
  • certificati di conoscenza delle lingue: il tedesco (a meno che il tuo ospite tedesco non dica che basta l’inglese, in quel caso certificato di inglese) e la lingua del Paese estero (che se fosse proprio strana va bene l’inglese ma devono dirlo quelli all’estero e tu, comunque, devi avere il certificato).
  • due lettere di referenze. Solito, direte voi. No no. Mica c’è solo la lettera libera: i due martiri devono anche compilare e firmare un simpatico formulario. Inoltre, mentre tutto va caricato su un portale, le lettere vanno spedite per posta. Così, giusto se uno trovasse tutta la procedura troppo semplice
  • .Dulcis in fundo: una dichiarazione aggiuntiva. Su quello che ti pare, che sei bello come il sole, che sei mancino, che mangi legumi due volte a settimana e la frutta tutti i giorni, che ti piace il jazz e hai uno smartphone.

Io sono convinta che se riesci a mandare tutto correttamente, tu sia già una persone incredibile e meriteresti la borsa solo per quello. E anche una laurea in ingegneria gestionale ad honorem.

Vado a stampare la dichiarazione della mia maestra che dice che nelle tabellone prendevo sempre bravissima, ho pensato che può essere utile da allegare alla domanda.

 

Alla prossima,

M

Madre e padre ovvero chi insegna l’italiano ai tedeschi

Partiamo da un universale generale: mamma e papà ci sono in tutte le lingue del mondo!

Anche un popolo poco incline ai sentimenti famigliari come quello tedesco non solo ha i concetti genitoriali, rispettivamente “Mutter” e “Vater” ma persino i vezzeggiativi “Mutti” e “Vati” (o Mama e Papa).

Avrete già capito che qui viene il però. Bravi, certo che arriva il però! Nella mia esperienza di insegnante di italiano ho spesso avuto allievi che raramente erano al livello A1, quindi, per conoscerli e per capire la loro padronanza dell’italiano, alla prima lezione li ho sempre fatti parlare un po’ di loro e della loro famiglia. E sempre, puntuale come l’Ave Maria delle sette, hanno sempre parlato della loro “madre” e del loro “padre” (tra l’altro con vari strafalcioni tipo “la mia madre”, “il mio padre”, “il padre di me” e via dicendo ma soprassediamo).

E io mi sono sempre chiesta: ma perché questo linguaggio ottocentesco? Posso anche immaginare che qualche collega poco volenteroso glissi sull’esistenza di “mamma” e “papà” ma ho in generale molto rispetto per i miei colleghi e credo che gli sfaticati siano pochi.

E dunque? Le prime due spiegazioni che mi sono data sono queste:

  1. sono difficili da ricordare. Ma è strano perché anche loro hanno Mama e Papa, certo bisogna ricordarsi le due emme di mamma e di pronunciare l’accento su papà ma in sostanza non sono parole complesse.
  2. vogliono parlare forbito e allora dicono madre e padre. Forse. Questa spiegazione è più convincente della prima ma non convincente del tutto.

Pensa che ti ripensa me n’è venuta in mente una terza, sentendo parlare i miei ragazzini di latino. La verità è che i miei allievi di italiano sono adulti pertanto in tedesco non diranno mai, ad un altro adulto, meine Mutti o mein Vati, tantomeno meine Mama o mein Papa. Queste espressioni le usano i bambini e gli adolescenti, come infatti fanno i miei ragazzini di latino, mentre probabilmente è disdicevole per un adulto.

Superata la soglia della maturità ufficiale, insomma, e soprattutto se parli con un altro adulto, userai sempre e solo Mutter e Vater, cioè madre e padre. Non credo ovviamente che questa distinzioni indichi un mutato affetto per i genitori, credo semplicemente che ad un certo punto anche nei confronti di mamma e papà l’adulto tedesco si colloca su un piano meno emotivo e più paritario, Mutter e Vater sono i suoi genitori ma chiamandoli senza usare diminutivi o vezzeggiativi non solo rende loro una sorta di omaggio ma li riconosce come suoi pari, dal momento che anche lui o lei può essere una Mutter o un Vater.

Noi italiani no: (la) mia mamma, (il) mio papà. L’omaggio che rendiamo a loro definendoli così in pubblico è pienamente emotivo e decisamente gerarchico: siamo sempre i figli, sia che parliamo con loro sia che parliamo di loro con altri li chiameremo sempre mamma e papà (in privato anche mami e papi!).

Allora aboliamo dai libri di italiano per stranieri quel madre e quel padre che fanno tanto libro Cuore e portiamo i nostri allievi o amici tedeschi nel cuore più genuino della nostra lingua e della nostra cultura, dalla mamma e dal papà e, ovviamente, dalla nostra emotività, che li affascina tanto.

Alla prossima,

M.

ps: è significativo che i figli in tedesco siano sempre indicati, quando più di uno, come Kinder, cioè bambini, indipendentemente dall’età che hanno.

 

Guten Rutsch!

Questa espressione mi sa che proprio non la si può capire a meno di non esserci cimentati con il tedesco in qualche occasione, soprattutto festiva.

Niente paura, anche se come molte parole crusche, questa espressione sembra un modo per mandare qualcuno a quel paese, in realtà altro non è che un augurio: eh già, così i tedeschi si fanno gli auguri di buon anno, dicendosi “guten Rutsch” (leggi guten ruch).

Guten Rutsch vuol dire “buono (guten) scivolamento (Rutsch)”: inutile dire che potremmo stare ore a disquisire del fatto che i tedeschi si augurano vicendevolmente di arrivare a rotta di collo nell’anno nuovo. Che cosa ci vogliamo fare, loro sono così, pragmatici, temprati nell’acciaio Krupp e forse, a San Silvestro, anche sbronzi persi tanto che stare in piedi tra l’anno vecchio e quello nuovo non è mai stato possibile e allora hanno coniato un’espressione che giustificasse il camminare sui gomiti.

Poco importa, importa invece che loro non si augurano “buon anno”, intendendo cioè tutto l’anno a venire ma solo di scivolare bene nell’anno alle porte. Comodo eh! Cioè, considerando che la maggior parte delle persone sarà a fare trenini a feste alcoliche, non è un augurio difficile. Di solito, la bollicina di birra o di spumante (Sekt per i tedeschi, no no, non è paragonabile allo spumante, era per dire come chiamano il vino con le bolle) tende a far vedere le cose in modo più roseo, almeno se non si esagera ché allora viene la sbronza triste e sono guai. Lì si scivola nell’autocommiserazione.

Importa però soprattutto che nell’augurio tedesco il passaggio da un anno all’altro sia transizionale, smooth come direbbero i britannici. Se poi l’immagine che “guten Rutsch” ci fa venire in mente è quella di uno scivolo, allora pensiamo che nell’anno vecchio si sia arrivati in cima alla montagna da scalare e che la strada da ora in poi sia in discesa.

Noi invece tendiamo di più a mettere punti, a separare il vecchio e il nuovo. A volte anche fisicamente, liberandoci di quello che è vecchio davvero, letteralmente (tradizione discutibile ma certamente catartica)!

In qualsiasi lingua vengano fatti gli auguri per il nuovo anno sono sempre graditi ma devo dire che ho pensato molto a quale tradizione preferisco.

Stavolta la cosa migliore mi sembra la somma delle due, almeno per me. Il 2015che per fortuna sta finendo è stato il mio annus horribilis nel quale tutto, anche le cose belle che sono successe e le soddisfazioni che ho avuto, sono state faticosissime e rare.

Spero di essere finalmente arrivata in cima allo scivolo ma so che per poter davvero fare un “guten Rutsch” devo anche liberarmi da alcune cose vecchie che appesantiscono me e che hanno appesantito l’anno che sta finendo.

Allora ne dico tre di cose: tre che voglio portare con me e tre che voglio buttare dal metaforico balcone.

Porto con me l’esperienza di questo blog e della rubrica di citazioni letterarie appena iniziata (http://www.leggeremania.it/2015/12/18/citazione-dante-alighieri-ulisse/), le decisioni prese negli ultimi mesi e le giacche, che ho scoperto solo di recente e che mi piace indossare.

Butto via definitivamente l’ansia del “è ora di fare/si deve fare”, la cattiva alimentazione e la scarsa voglia di cucinare, il non aver fatto sport.

Ci sono anche un paio di cose che mi auguro per il 2016 e un paio che dovrebbero proprio accadere, una già a gennaio ma finché non vedo non credo!

Buon 2016 a tutti, che possiate scivolare senza cadere 🙂

Alla prossima,

M

 

Linguini

Dal titolo potreste immaginare che si tratta di un altro post sui tedeschi e il cibo…sì e no. I tedeschi c’entrano e il cibo pure ma stavolta è, come dire, un piccolo invito per i ristoratori italiani a Berlino.

Tutto nasce da una ricerca su internet e da varie esperienze in giro per la città.

Mio marito e io stiamo cercando un buon ristorante italiano dove andare a mangiare prima delle vacanze di Natale e siamo abbastanza disperati perché i nostri due ristoranti preferiti hanno chiuso.

Così mi sono messa di buona lena a cercare nuovi ristoranti italiani – alcuni li conosciamo e per una pizza o una cena senza troppe pretese vanno benissimo, ma volevamo qualcosa di più.

Ecco quello che ho capito dell’Italia dalla mia ricerca, se immaginassi di non esserci nata e di averci vissuto per 24 anni:

  • l’Italia inizia in Toscana, se va bene. Tutto quello che c’è sopra è Austria. O Francia. Insomma, torniamo all’Ottocento, o Napoleone o Asburgo. Bon, mangiatevi la cotoletta e tacete.
  • In Italia si mangia solo mozzarella di bufala, pasta all’arrabbiata e tiramisù. Tutti i giorni, festivi inclusi.
  • In Italia si mangia su sedie di legno sgangherate e il tavolo è coperto da tovaglie a quadrettino che neanche nel peggio film sulla mafia in America.
  • In Italia, non me ne vogliano, gli amici del Sud, si scrivono menù in una lingua quasi incomprensibile. A me, almeno.

Posso esprimere chiaramente il mio stato d’animo? ECCHEPPALLE! Partiamo da una premessa: l’esperienza gastronomica migliore della mia vita è stata la Sicilia. Sapori mai sperimentati altrove, che probabilmente mai più sperimenterò.

MA io rivendico con forza il mio diritto ad essere italiana e ad essere considerata tale e a mangiare risotti, polenta, tortellini, gnocco fritto e culatello, vitello tonnato, bistecca impanata (che voi chiamate milanese), torta di rose e bunet. E anche le rane, che non sono chiccerie francesi, ma roba lomellina, che mia nonna le prendeva nei fossi. E l’anatra e il salame d’oca (oddio, forse qualcosa di Asburgo e Napoleone però è rimasto).

E invece menù pieni di capresi, di carbonare e arrabbiate, di tagliate di manzo e di orribili panne cotte (che sono delle mie parti ma trovarne una fatta bene è un miraggio). Va bene l’adattamento al gusto tedesco ma se non ai tedeschi non insegniamo che i sapori italiani sono davvero tantissimi e che non ci ingozziamo di pasta, pizza e tiramisù da mattina a sera, non è che si sogneranno di ordinare dei tortellini in brodo e anche a Bergamo alta ordineranno “linguini arrabbiata”.

Soprattutto non capisco i ristoratori: va bene fare il soldo facile con la pizza salami e le tovaglie a quadretti ma se si ha un po’ di amore per la propria terra, sarebbe meraviglioso proporre davvero i sapori regionali, di qualunque regione essi siano, purché autentici. Che poi i tedeschi li educhiamo, tranquilli!

Infine, un’idea imprenditoriale per i giovani chef lombardi che arrancano: venite qui, fatemi provare la gioia di sedermi ad in un ristorante italiano e ordinare un risotto salsiccia e Bonarda. Perché qui non c’è neanche la Bonarda (il discorso del cibo vale anche per i vini, mi emoziono quando trovo un Gavi, e ricordo la degustazione di vini di un amico a Monaco di Baviera dove mi sono ubriacata – letteralmente – di bollicine della Franciacorta e di passito di Pantelleria).

Insomma, uscire da questo cliché del cibo vuol dire anche uscire da altri cliché e far conoscere il nostro Paese davvero in tutto quello che di bello (e buono) ha da offrire.

 

Alla prossima,

M

 

 

Gottesdienst

Comincio questo nuovo post facendo outing: sono cattolica.

E aggiungo subito una cosa: non faccio proselitismo. Potete essere atei, agnostici, neocatecumenali (no, forse questo no ecco), testimoni di chi vi pare, adorare il dio della Tempesta di Hatti o anche Pollon per quanto mi riguarda. La religiosità e la religione sono fatti privati e, come tali, ognuno si guardi i propri.

Già che ci siamo ancora una postilla. Ci sono tre categorie di reazioni che non sopporto quando dico o viene fuori che sono cattolica:

  • lo sguardo pietoso di chi non capisce come tu possa avere il grado di istruzione che hai e “credere a quelle sciocchezze”. Fatti miei, se riesco a conciliare le due cose senza finire alle neuro, non ci sono ragioni per preoccuparsi.
  • lo scuotimento di testa di chi dice “anche io sono cattolico, credo in Dio ma non nella Chiesa come istituzione”. Eh, caro, sappiamo tutti e due che la Chiesa, come istituzione, come persone e anche come edificio ha un sacco di difetti. Purtroppo non ti può piacere la pecora ma non la lana. Fattene una ragione e decidi se stare in tutte le scarpe o se camminare a piedi nudi.
  • la faccia sconcertata di chi pensa che non ho fatto sesso fino al matrimonio perché crede che lì sia il succo della religione cattolica. Velo pietoso, porgiamo l’altra guancia e cerchiamo di amare anche questo naufrago neuronale come noi stessi (che fatica!).

Ma perché vi ho parlato di tutto questo? Semplice, perché Gottesdienst in tedesco altro non è che la Santa Messa.

È una parola che merita una riflessione: letteralmente vuol dire “servizio di dio”. Io l’ho sempre trovata una bella parola, che mette in evidenza il senso dell’essere cattolici, il servire, dio certo ma anche il prossimo. Che poi è anche la cosa più difficile e chi davvero ce la fa o è santo o poco ci manca.

Riflettevo anche che invece in tedesco la parola Messe, che può essere appunto fraintesa per l’italiano Messa, significa fiera.

E un po’, a volte, la Messa un po’ fiera lo sembra, almeno in Italia: vi siete mai trovati a Natale ad assistere, anziché alla Messa di mezzanotte, alla gara dei nuovi capi d’abbigliamento e/o accessori? Per non parlare di gioielli, pettinature, unghie e compagnia bella. Per non parlare di augurino e augurino fatti da e a gente che di solito si ignora. Stessa cosa vale per Pasqua e feste comandate varie. Ferragosto escluso, che lì non ci si ricorda neanche più che festa religiosa è, si pensa solo a fare manbassa di salamelle.

E com’è in Germania, mi chiederete? Più autentico? Sì…quasi a rasentare il fanatismo. Gente in ginocchio sul pavimento, tutti rigorosamente vestiti di scuro, organo funeralizio ad accompagnare ogni celebrazione, divieto assoluto di mettere fiori. Neanche alla Madonna, è uno spreco. E, nella chiesa che frequento a Berlino, hanno tagliato anche sulla tovaglia d’altare, è scolpita nel bronzo, così è più amica dell’ambiente (meno della gioia). Protestanti travestiti (nel senso di mascherati eh).

Insomma la via di mezzo è difficile. Sì, lo è. Perché è giusto che la messa e la chiesa siano sostanza ma è anche vero che un mazzo di fiori a Maria non è apparenza, è la sostanza di una devozione gioiosa e autentica.

Sono certa che ci sono tante parrocchie dove gli auguri scambiati sono sinceri e dove nessuno bada se hai indosso un cappotto nuovo. Ma nessuna è come quella del mio paesino italiano dove mi sono sposata.

Lì la signora Fernanda mi ha fatto scegliere le tovaglie (vere, bianchissime e stirate da lei personalmente) che volevo sull’altare quel giorno. Lì a Natale tiro sempre tardi perché tutti mi chiedono come va in Germania, si rammaricano che mio marito non sia con me e mi dicono che mi fermo troppo poco. Lì arrivo in trenta secondi da casa, quando sento suonare le campane. Lì improvviso i canti perché senza non è messa e non serve l’organo professionale, bastano voci volonterose.

E la mia piccola parrocchia italiana mi ha anche insegnato la differenza tra religione e devozione: la prima è filosofica, meditata, la seconda è autentica, pratica, sorridente. E come dovremmo amare il prossimo, essendo autentici, con un sostegno concreto, sorridendo.

 

Alla prossima,

M